Comunico, quindi penso!

È da un po’ che mi guardo attorno. Attorno al punto in cui sono arrivato nella mia carriera. Sono autonomo, ho seguito percorsi autonomi dettati da sentimenti, ovvero cosa ho avvertito di buono nelle scelte per il lavoro che svolgo. Ho scelto di approfondire temi che hanno soddisfatto il piacere mio, viscerale (calligrafia e tipografia, la costruzione del brand, l’amore per la stampa e la meraviglia della carta che esalta la concretezza di un’idea, di una parola..) e che soddisfano i bisogni di ‘saper rispondere’ alla propria clientela, quindi essere responsabili, con strumenti che identificano le mie soluzioni ma che amplificano la visibilità e la conoscenza dei miei clienti.

Credo di essere rimasto fedele a questi principi ed ho sempre fatto ciò che so fare, il grafico pubblicitario.

Da quando ho cominciato vent’anni fa, e via via sempre più frequentemente, assisto e osservo il mondo della grafica e della pubblicità (a cui si è aggiunto il marketing e social marketing e chi più ne ha, più ne metta) accrescere in iniziative lodevoli di grande richiamo di pubblico.
Poi osservando bene ritrovo, tra relatori e partecipanti a grandi masse di pubblico gli stessi attori del comparto grafico che non fanno altro che autocelebrarsi autoreferenziarsi e che attirano al loro cospetto novelli professionisti a cui diffondere il segreto miracoloso per saper ‘VENDERE’ il proprio lavoro e diventare altrettanti guru di successo.

A questi personaggi si aggiungono siti e riviste specializzate che non hanno più la capacità di raccontare ma soltanto esprimono l’esuberanza di geni incompresi che trovano spazio solo su giornaletti di carta per vantarsi poi dello spazio conquistato. Riviste specializzate. Riviste di settore. Basta riempire di elementi astratti la vuota carta e rischi di trovarti genio!
Non ho nulla verso queste forme celebrative e conoscitive di nuovi talenti. È giusto trovare forme di autopromozione e di conoscenza all’interno del settore grafico. Giusto è conoscersi.
Mi domando, semmai, se si tiene conto di cosa ci sia al di fuori. Il pubblico ci capisce? Ci stiamo rivolgendo a loro? C’è un senso di gruppo che ci identifichi come settore di persone al servizio del pubblico, delle imprese?

A me sembra che si sia persa da qualche decade la funzione anche civica della comunicazione d’impresa e della pubblicità. Mettere in relazione il prodotto o servizio con i potenziali destinatari con l’aggiunta di assumere la responsabilità in ciò che si comunicava.
Inizialmente la pubblicità, e così interconnessa la grafica, avevano anche un ruolo educativo perché era il mezzo che creava la relazioni col pubblico. Si arrivava con un sorriso, un invito, una voglia di conquistare la fiducia e dimostrare la bontà e la ragione di quanto si affermava. La clientela imparava dal pubblicitario e il pubblicitario imparava dal cliente.
Oggi vedo tanti guru da una parte e dall’altra dei due schieramenti. Siamo tutti guru. Il cliente spiega il lavoro da fare al grafico pubblicitario e il pubblicitario frustrato vede nel cliente il potenziale squalo pronto a fregarlo o la mucca (per rimanere in tema di zoologia) da mungere.
È andato a perdersi quel rapporto fiduciario tra competenze diverse e soprattutto, in generale nel mondo del lavoro, il rapporto tra persone.
Certo, ci sono le eccezioni e ci sono ancora realtà felici e rapporti felici tra clienti e pubblicitari.

Come mai tutto ciò? Penso che l’aumentare di specializzazioni e l’apertura di corsi di grafica (con un paio di mesi si ottengono i diplomi) e la facilità di imparare autonomamente programmi di grafica al computer, come la schizofrenica ascesa di social network e la mole di libri di guru pronti a venderti la verità divina abbia generato più caos che altro. Tutti sanno fare tutto.
Si è persa per strada la capacità di vedere. Fermarsi e vedere il quotidiano.
Le forme e i colori del quotidiano.
La capacità e la preparazione ad osservare e studiare le cose si sono affievolite.
Sarebbe bello vedere movimenti artistici (l’ultimo degno di nota è stato il futurismo) riprendere spazio a casa nostra, dove si torna un po’ più illustratori e si racconta il presente.
La frenesia non è appannaggio del sistema Italia. Siamo bravi lavoratori ma siamo figli del bello. Questo richiede tempo per essere costruito.
Il mondo ci richiama sempre più a rallentare gli spasmi accelerati che ci siamo dati negli ultimi 30 anni.

Credo che chi fa comunicazione deve prendersi la responsabilità di iniziare a segnare il passo e, come un metronomo, agevolare il ritmo delle attività d’impresa.
Essere uno degli ingranaggi di un orologio che torna a ridare la misura all’unisono con le campane del paese.

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